I NON LUOGHI DELL’ANIMA (dai nonluoghi di Marc Augè allo smarrimento psichico dell’attacco di panico)

(L. Rasicci)

1- L’IMMAGINE DI SE’

… La sindrome dell’attacco di panico ha inizio con un esordio casuale e inaspettato che separa il prima dal dopo: un incidente, una delusione d’amore, una separazione, un lutto, persino lo svelamento di segreti nell’ambito famigliare. Da quel momento le persone non riescono ad affrontare normalmente la quotidianità, si muovono con circospezione e vivono temendo il pericolo ad ogni passo fuori dal sicuro confine affettivo e routinario.
Prima dell’esordio il soggetto si definiva una persona normale che cerca come tutti il benessere. Nei primi colloqui mostra un’immagine di sé nient’affatto problematica che risulta però il più delle volte un’immagine idealizzata. L’immagine idealizzata di sé riflette un’Ideale indipendente e auto-affermativo caratterizzato da sicurezza, fiducia, vivacità, intraprendenza, fierezza e coraggio.
… Il soggetto è solo superficialmente sicuro di sé. Persegue bisogni inautentici che sostengono nei comportamenti e nella quotidianità un’alta ed effimera autostima. Fa una valutazione continua del proprio valore con un inevitabile susseguirsi di alti e bassi. Nasconde in tal modo e per mezzo di un forte controllo una grande fragilità personologica.
… La sensazione di “cadere da un piedistallo” testimonia il venir meno degli aspetti narcisistici che sostengono l’illusoria identità. Il frequente e conseguente crollo depressivo svela le debolezze del Sé reale.
Dentro l’involucro della finzione non può che esserci il vuoto: una dimensione esistenziale in cui il tempo e lo spazio sembrano dissolversi lasciando la persona in preda ad un “cupio dissolvi” ingovernabile. Il paziente afferma di aver sempre creduto di vivere con pienezza, di essere soddisfatto delle proprie scelte e di non comprendere ora quell’angoscia e il senso di quei sintomi. Si trattava invece di una sensazione di pienezza prodotta più dal “sembrare” che da un ’”essere” reale: e sappiamo che quando le apparenze crollano non resta che il vuoto.
… Nell’attacco di panico la realtà a cui la persona credeva sembra andare in frantumi. Ci sembra quasi di avvertire, come nel mito, la “presenza” di Pan. La sua apparizione dissolve ogni individualità e toglie la capacità di riflessione. L’epifania del dio-uomo-animale spiazza ogni illusione mentre l’urlo interiore del panico, che re-immerge la persona nel caos istintuale della natura selvaggia, sembra proclamare: “ho svegliato il dio Pan!”. All’improvviso ci si ritrova solo corpo, un corpo impazzito.
… All’improvviso la persona avverte il terrore di perdere se stessa e il desiderio urgente di tornare quello che era prima. Anche la realtà esterna appare strana ed estraniante. Si sviluppa così un comportamento di evitamento e si formano talvolta fobie specifiche per ancorare l’angoscia, per darle un significato e un nome, una causa e una ragione oggettiva.
… L’esperienza del panico rivela l’inconsistenza del falso Sé ma senza un vero insight: “non sono più me stesso”, pensa la persona, ma neppure sente di poter essere “altro”. Ciò nonostante il Sé originario – che si cela in profondità conservandosi coeso ed integro anche se in maniera introvertita – avverte il disagio e riemerge, terrorizzato ma sincero, sotto le ceneri del falso Sé.

2- PATOLOGIA DEL VUOTO

… Non stupisce allora che il malessere del nuovo millennio si caratterizzi come “patologia del vuoto”. Dietro le scenografie dell’apparire non può esserci che l’assenza e la persona che assiste al crollo delle finzioni non può che essere presa dal panico. Le persone che soffrono di attacchi di panico hanno una gran paura di sentire il vuoto: dentro sé, sotto i loro piedi, dietro la loro schiena. Una sensazione di perdita di gravità, di improvviso deserto esistenziale abitato solo dal batticuore e da una compressione al petto che toglie il respiro.
… Lo strappo nella continuità del Sé conduce allo smarrimento della depersonalizzazione che è, insieme alla paura, il sintomo per eccellenza dell’attacco di panico. L’esperienza dello sfilacciarsi della trama spazio-temporale del vissuto interiore fa perdere d’un tratto la centralità dell’io. Le abitudini e le attività quotidiane appaiono all’improvviso prive di senso: il panico apre così all’horror vacui della depersonalizzazione.
… Il panico e la depersonalizzazione possono rappresentare un’ineludibile occasione per riconsiderare le proprie motivazioni e chiedersi il perché del malessere che il sintomo cela al di là della paventata autostima. I sintomi utilizzano il linguaggio del paradosso e il vuoto smascherato all’interno del vivere frenetico sembra chiedere ancora più vuoto. Ma in senso opposto e in un’accezione positiva: più lentezza, più silenzio, meno immagini, più ascolto.
… La “de-personalizzazione” può divenire una fonte di ispirazione per una ricerca più profonda e consapevole circa il significato dell’essere “persona” nella nostra epoca. Una ricerca che esprima le esigenze non solo del singolo individuo ma in generale dell’uomo contemporaneo. Soltanto una riflessione che tenga conto del disagio emotivo degli individui può portare a proposte di civiltà meno alienanti. Come un tempo fu l’isteria a indirizzare la psicoanalisi allo studio e alla rivendicazione del ruolo della sessualità nella salute e nel benessere così può essere oggi il default dell’identità nel disturbo del panico ad indicare il percorso per ri-trovarsi e uscire dalle costrizioni della finzione di sé.

3- LUOGHI E TEMPI DEL PANICO

… I luoghi e i tempi del panico rappresentano il pericolo e l’impossibilità, luoghi e tempi dove le normali abilità vengono meno all’improvviso. In queste situazioni spazio-temporali, ambientali e relazionali, la fragilità della consistenza del Sé e’ avvertita più chiaramente e in modo drammatico. Sono situazioni ordinarie e quotidiane che erano affrontate normalmente prima dell’esordio: circostanze comuni e difficilmente evitabili, come la solitudine e il silenzio oppure la folla, la velocità o un’estrema lentezza; oppure situazioni che nello stile di vita contemporaneo sono necessarie e ineludibili, come il guidare in autostrada o il recarsi in un centro commerciale, attraversare una piazza o prendere l’ascensore.
Le dimensioni che più facilmente provocano il panico sono quelle di pieno e di vuoto: tempi e spazi troppo vuoti o al contrario troppo pieni. Anche il troppo pieno infatti può provocare paradossalmente un sentimento di assenza quando un’intensa stimolazione ambientale fa emergere per contrasto il vuoto nascosto sotto l’ansia o l’iperattività. Sia la pressione degli stimoli sia la loro mancanza mettono a dura prova le rigidità caratteriali suscitando il timore del crollo di quel controllo che sostiene l’artificiosità del falso Sé.

4- I NON-LUOGHI

I luoghi che scatenano il panico sono spazi ritenuti troppo grandi o al contrario troppo piccoli. Gli spazi troppo grandi sono quelli alti, aperti o vuoti: come le piazze, gli orizzonti, la campagna e la montagna, i piani alti di palazzi e monumenti, gli aeroporti, i ponti, le funivie, persino le strade senza guard-rail o finestre aperte anche soltanto al primo piano.
Oppure luoghi troppo piccoli, bassi, chiusi, angusti o affollati: stanze, abitacoli di auto, ascensori, treni, sottopassaggi, parcheggi sotterranei, gallerie, assembramenti di persone, concerti, cinema e semplici finestre chiuse.
Ma analizziamo meglio di che tipo sono queste situazioni. Da una parte abbiamo esperienze del tutto naturali,dall’altra invece quelle dove l’artificiale ha il sopravvento. Nelle situazioni naturali l’organismo, anche se civilizzato, individua e riconosce il pericolo interiorizzato attraverso l’evoluzione filogenetica: altezze (acrofobia), mancanza di spazio e ossigeno (claustrofobia), spazi aperti e non protetti (agorafobia). L’ambiente naturale ha pieni e vuoti che si alternano a sfumature e a gradazioni, a picchi e discese: come nel rincorrersi di montagne, vallate, colline e spiagge. Anche i luoghi naturali, allora, quando si avverte una mancanza di sintonia con l’ambiente, possono generare stati di depersonalizzazione. L’impatto con la vitalità “panica” della natura fa emergere anche in questo caso l’insicurezza nascosta dietro le rigidità caratteriali.
Considerando i contesti attuali doveprevale l’artificiale notiamo purtroppo il moltiplicarsi di luoghi che all’esperienza diretta risultano estremamente estranianti. I luoghi artificiali sono quelli che Marc Augé* ha definito “nonluoghi” (1993): luoghi anonimi e impersonali, senza una significativa impronta antropologica, nei quali si perde il legame persona-persona e il legame persona-appartenenza sociale. I nonluoghi cancellano la storia e l’identità collettiva: sono spazi alienati e alienanti che non rispecchiano alcuna qualità, simbolica o concreta, della dimensione dell’umano. Ci si scopre drammaticamente spaesati e de-personalizzati in luoghi essi stessi spaesati e de-personalizzati.

5- I TEMPI PERSI. L’eterno presente

Nel nostro mondo si sono persi i luoghi e i tempi naturali del sentimento panico: persa l’estasi dell’immensità e dei cieli stellati affogati nell’inquinamento luminoso delle città; persi la notte, il silenzio e la solitudine nella convivenza assordante. Perse pure le stagioni. Il sentimento del tempo ha smarrito il senso della continuità di passato, presente e futuro che disegna dalla notte dei tempi la storia individuale e quella dell’umanità intera. Si vive in un eterno presente. Non c’è passato, non c’è divenire. Resta l’ansia di un’attualità circolare e ossessiva dove il senso della progressività lenta e feconda degli eventi è svanita, dove la progettualità si incaglia e si arena negli automatismi dell’esistente.
La dimensione temporale assume la durata mercantile dell’”usa e getta”. Questa mutazione condiziona le identità e le conduce all’assurdo ontologico di una vita essa stessa “usa e getta” sulla falsariga di una qualsiasi moda di stagione che si esalta inseguendo il nuovo e il trendy.
Non c’è tempo. E se c’è se ne ha timore.

6- I NON-TEMPI

Dove ci sono non-luoghi si sono anche tempi, anzi, come li definisce ancora Augè, non-tempi, tempi ugualmente privati di quello spessore antropologico che per secoli ha forgiato la materia del mondo rendendo umanamente vissutolo spazio attraverso il vissuto temporale. <<I media>> scrive Augè* <<strutturano il nostro tempo quotidiano, stagionale e annuale>> (2009, p.40) rendendoli, aggiungiamo noi, tempi alienati.
Non tempi possono essere considerati anche i tempi vuoti: pause, attese, tempi morti o interminabili; oppure situazioni che costringono in condizioni di passività, come avviene nelle soste ai semafori, nelle code presso gli uffici o nei blocchi provocati dal traffico stradale. Nell’attacco di panico anche il tempo vuoto da attività produttive, il tempo “libero”, può essere occasione di spaesamento, in quanto è anch’esso un tempo artificiale, vale a dire quantificabile e misurabile con l’orologio o il calendario. Anche i tempi troppo pieni, ovviamente, possono causare ansia: come nelle situazioni di stress lavorativo oppure di uno stile di vita eccessivamente attivo e presenzialista.
Il tempo naturale – ovvero il tempo non quantificabile, almeno nell’esperienza immediata, come lo scorrere delle stagioni e le variazioni del tempo atmosferico – può incidere sul senso di continuità del Sé oltre che, come sappiamo, sull’umore. Nella clinica riscontriamo sovente casi in cui ad indurre stati d’ansia sono normali eventi ambientali o climatici: l’arrivo della primavera o dell’autunno, il caldo e i temporali dell’estate; oppure semplicemente l’incombere di cieli troppo profondi o di nubi che evocano pericolose distanze e abissi. In altri casi sono i tempi che scandiscono la giornata a causare disagio: come la notte, il risveglio, le prime ore del mattino, il pomeriggio. E’ interessante notare come ci possa essere in alcune persone una diminuzione degli attacchi di panico in giornate di pioggia: tali situazioni atmosferiche inducono all’intimità, a un sano allentamento del controllo e alla rinuncia a un fare difensivo e nevrotico.

7- ED ECCO IL PANICO

… In conclusione: i luoghi e i tempi del panico rivelano le difficoltà nell’affrontare spazi e tempi troppo pieni o troppo vuoti in situazioni, sia artificiali che naturali, che risultano estremamente emblematiche per quel che riguarda la tenuta o meno della continuità e dell’integrazione del Sé. In queste situazioni il Sé alienato è costretto a riflettersi e a rispecchiarsi nella drammaticità del sentimento dell’assenza. In queste dimensioni spazio-temporali – luoghi senza tempo, senza storia e senz’anima – anche il tempo interiore, fondamento della durata e della continuità del Sé, si blocca, traducendosi all’improvviso in non-tempo. Ed ecco il panico: il non-tempo del Sé. Il panico, in altre parole, non è che l’angoscia che i non-luoghi e i non-tempi contemporanei provocano nell’individuo facendo deflagrare le sue stereotipie e svelando l’inconsistenza del falso Sé.

(Da L’Epoca del panico, L. Rasicci, Ed. Clueb, Bologna, 2011)

* Marc Augè: -“Nonluoghi”, 1993 – “Che fine ha fatto il futuro?”, Laterza, 2009